La Biennale di Venezia, 58. Esposizione Internazionale d’Arte, è quest’anno intitolata May you live in interesting times e curata da Ralph Rugoff. Sarà visitabile ancora per un po’, fino al 24 novembre 2019 e vista la particolare presenza femminile di questa edizione abbiamo scelto di raccontare qui sotto le opere che più ci hanno incuriosito.
Ma prima alcune necessarie premesse. Il titolo prescelto per questo 2019 è un’espressione della lingua inglese a lungo erroneamente attribuita a un’antica maledizione cinese, che evoca periodi di incertezza, crisi e disordini; “tempi interessanti” appunto, un po’ come quelli che stiamo vivendo.
Da parte sua Ralph Rugoff ha dichiarato: «May you live in interesting times includerà senza dubbio opere d’arte che riflettono sugli aspetti precari della nostra esistenza attuale, fra i quali le molte minacce alle tradizioni fondanti, alle istituzioni e alle relazioni dell’ordine postbellico. Riconosciamo però fin da subito che l’arte non esercita le sue forze nell’ambito della politica. Per esempio, l’arte non può fermare l’avanzata dei movimenti nazionalisti e dei governi autoritari, né può alleviare il tragico destino dei profughi in tutto il pianeta. […] In modo indiretto, tuttavia, forse l’arte può offrire una guida che ci aiuti a vivere e pensare in questi tempi interessanti».
Gli artisti internazionali – accolti lungo le immense sale dell’Arsenale e nel padiglione centrale ai giardini – chiamati a rappresentare questo tema sono 78 e di questi, 42 sono donne. Per la prima volta vi raccontiamo con gioia di una Biennale in maggioranza femminile, fatta di donne che conquistano il pubblico, attraggono i collezionisti e si aggiudicano premi. Donne che parlano di temi impegnati, ma non trascurano il senso della bellezza. Qui di seguito, brevemente poiché rendere un’idea esaustiva di tutta la proposta femminile di questa edizione è finalmente ardua un’impresa, alcuni nomi diffusi di opere dalla mostra principale May you live in interesting times e alcuni interventi nei padiglioni nazionali.
Partendo idealmente dai giardini e dal padiglione centrale, ci accoglie all’ingresso l’artista italiana, Lara Favaretto e lo fa a modo suo, con una nebbia densa. L’arte delle donne sa essere una presenza leggera eppur palpabile, Thinking Head, testa pensante, è il titolo del suo lavoro.
Teresa Margolles esamina da una prospettiva femminista le crudeltà della narcoviolenza che affligge il Messico, suo Paese d’origine. Mette in scena il muro di Ciudàd Juarez, città messicana dove avviene il maggior numero di femminicidi e di crimini legati al mondo del narcotraffico.
Andra Ursuta, artista di origine rumena che ama giocare con immagini controverse, spesso grottesche. Imperniate sul paradosso e sull’ironia, le sue opere si ispirano a eventi politici, luoghi comuni, allegorie e ricordi personali, e tentano di illustrare e sovvertire le dinamiche di potere che permettono ai confini precari fra trasgressione infrazioni e banalità, indifferenza ed empatia, degradazione e senso dell’umorismo di continuare a esistere. A Venezia espone una serie di cuori lacerati, spezzati, divelti dentro i quali mette la peggior spazzatura: il suo Divorce Dump analizza con feroce acume i resti di relazioni ormai finite e ci mette davanti alle nostre emozioni primitive.
Otobong Nkanga, premiata dalla Giuria per la sua ricerca verso l’ecologia e l’ambientalismo, ha saputo ricostruire alla Biennale un serpentone di materiali estratti dal sottosuolo del suo Paese, la Nigeria, dentro i quali scorre una vena che da pallida diventa sempre più rossa. Denuncia lo sfruttamento, l’inquinamento della madre terra e l’inesorabilità della morte del paese se non ci saranno nuove politiche ambientali.
Vista dell’installazione di Ad Minoliti. Copyright dell’artista – minoliti.com.ar
Poi Ad Minoliti che si appropria dell’estetica della casa per bambole – un’invenzione del diciassettesimo secolo, nata come strumento pedagogico per spiegare alle bambine il loro futuro ruolo di casalinghe, madri e mogli – la accosta a un immaginario modernista che ricorda Kandinskij, Picasso o Matisse, per poi farla a pezzi, distorcerla, modificarla e riconfigurarla del tutto.
Gli spazi dell’arsenale sono spesso invasi da installazioni sovradimensionate; qui l’opera dell’artista Kaari Hubson; nuovamente una casa delle bambole, ma gigantesca che si fa chimera estetica e psicoanalitica del concetto di femminile tra stereotipi e progressismi.
Rugile Barzdziukaite, Vaiva Grainyte, Lina Lapelyte, Sun &Sea (Marina), opera-performance. © Andrej Vasilenko
Accanto alla mostra principale, ci sono i 90 padiglioni nazionali – alcuni situati ai giardini e altri sparsi per la città – che molto hanno puntato sul talento femminile. Impossibile menzionarli tutti, ma partiamo dal progetto progetto vincitore del Leone d’Oro, quello presentato dal padiglione della Lituania, è firmato dal collettivo Neon Realism, un trio di donne (Lina Lapelyte, Vaiva Grainyte e Rugile Barzdziukaite con allestimento dell’italiana Lucia Pietroiusti.
Sun & Sea (Marina) ha trasformato uno spazio ampio e buio, con un ballatoio ammezzato superiore, in una lingua di spiaggia assolata, gremita di turisti che, stesi sulla sabbia, in costume da bagno, fra asciugamani, ombrelloni e potenti luci sbiancate, cantano. I soggetti di questo corale, coloratissimo tableau vivant sono venti artisti, venti comparse che, a partire dall’11 maggio, presentano la performance ogni sabato, per 8 ore al giorno. Osservare dall’alto un coro diffuso di persone sdraiate sulla sabbia, persone distribuite su colorati asciugamani, fra i bagliori di un sole da interno e i canti di storie raccontate. Una riflessione incentrata sulla ripetizione di compulsioni climatiche e sull’esternalizzazione della condizione umana, uno stadio dell’esistenza che per non temere l’ombra guarda fisso verso la luce.
Un altro interessante padiglione nazionale è ad esempio quello del Brasile. La risposta al quesito principale, ovvero come rappresentare il proprio paese – in questo caso una nazione in subbuglio, dove è stato di recente cancellato il ministero della cultura – arriva dal profondo, dall’interno di un’istituzione della cultura, ma anche dall’anima delle tradizioni brasiliane. Il duo di videoartisti Barbara Wagner e Benjamin de Burca uniscono coreografia e stralci di vita per rappresentare, senza censure, l’anima conflittuale del paese sudamericano nel video Swinguerra.
Padiglione islandese. Hrafnhildur Arnardóttir / Shoplifter. Chromo Sapiens, vista dell’installazione. Foto: Ugo Carmeni. © l’artista
Al femminile e come sempre eccentrico anche il padiglione dell’Islanda Chromo Sapiens: la curatrice Birta Guðjónsdóttir si rivolge direttamente al “Caro Homo Sapiens” (“Dear Homo Sapiens”) invitandolo a entrare in una caverna sensoriale per uscirne trasformato. L’artista Shoplifter, Islandese residente a New York, ha rivestito lo Spazio Punch alla Giudecca con una moltitudine di capelli sintetici. Nel suo lavoro la natura del paese d’origine incontra l’artificialità e il consumo della cultura pop creando un nuovo linguaggio espressivo.
Deep See Blue Surrounding You / Vois Ce Bleu Profond Te Fondre, questo il titolo per il padiglione francese realizzato da Laure Prouvost. L’artista ha immaginato un padiglione liquido e tentacolare: sviluppato a partire da una riflessione su chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo, svela un progetto di evasione verso un altrove ideale e sfida la rappresentazione di un mondo fluido e globalizzato in cui si mescolano diverse realtà condivise. Il film in mostra è un’opera di finzione prodotta durante una traversata a cavallo della Francia e interpretata da personaggi di età ed estrazione sociale diverse, ciascuno con abilità performative specifiche. Un’installazione scultorea in situ arricchisce e sviluppa i temi del film all’interno dello spazio, mentre il contesto fornito da Venezia – una città galleggiante costruita sull’acqua e dall’acqua, una città di facciate e di restroscena – e dalla Biennale tramite l’idea di rappresentazione si rivelano entrambi fonte d’ispirazione.
Padiglione svizzero, Moving Backwards. Foto © Francesco Galli. Courtesy: La Biennale di Venezia
E poi, Moving Backwards padiglione svizzero in cui Charlotte Laubard cura i lavori di Pauline Boudry e Renate Lorenz. La mostra esplora, in un’epoca di pesante retrocessione, le pratiche di resistenza che combinano tecniche di guerriglia, coreografie postmoderne e danza urbana, oltre a elementi della cultura underground queer. Una vasta installazione filmica che coinvolge i visitatori a entrare in invitati e dense coreografie generate dai gesti degli interpreti, da proiezioni in loop e oggetti animati.
Non possiamo non citare in chiusura l’inno alla sorellanza raccontato nel padiglione Italia: labirinto curato da Milovan Farronato. Due dei tre artisti esposti sono donne, stiamo parlando di Liliana Moro e Chiara Fumai “che con le loro opere spingono la domanda del futuro oltre i confini del femminile, facendo della sorellanza un concetto più estetico che storico; un qualcosa che ha a che fare con l’orizzontalità dello stare al mondo più che con gerarchie verticali di sorte. Un’orizzontalità nella quale perdersi e pertanto non riducibile a traiettorie pulite e prevedibili come quelle che sono state percorse fino a oggi.”
Testo di Alessia Ballabio e YOG — Your own guide
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